Mi piace scrivere. Non di un argomento in particolare. Mi piacciono le belle storie, quelle che lasciano il segno. Quelle che torni a casa la sera e non puoi fare a meno di divulgare. Quelle sulle quali rimugini per giorni. C’è però un tema che mi terrorizza e dal quale mantengo solitamente le distanze: la morte. Ancor prima, la malattia.
Ma da storie come quella che sto per raccontare non posso, non possiamo, che trarre stimoli di vita, di rispetto per la vita, di gioia di vivere.
Lauren Hill ha 18 anni quando le viene diagnosticato un incurabile tumore al cervello. Due anni al massimo, la tragica prospettiva dei medici. Come si reagisce a una notizia del genere? Mi auguro di non dover vivere mai in prima persona l’angoscia di rispondere a questa domanda. Non lo so come si debba reagire, nessuno lo sa. Si reagisce e basta. Si impazzisce. Ci si deprime. Ci si attacca a tutto quello che conta, che ha ancora valore. Alla speranza di guarire, al coraggio di combattere, alla voglia di dare un senso agli ultimi attimi, di trovare in essi la felicità, anche solo per un istante.
Per Lauren la felicità è il basket. È lo sport a darle la forza di affrontare la malattia, giunta ormai a uno stadio terminale. “Non ho mai mollato per un secondo, nemmeno quando ho ricevuto la diagnosi. Non ho mai pensato di sedermi e non vivere più la mia vita”.
E oggi, con il tumore espanso al punto di non ritorno e il rischio che la situazione degeneri prima del previsto, il commovente desiderio di Lauren: “Coach, voglio giocare una partita”. La Ncaa anticipa così l’esordio della Mount Saint Joseph University dal 22 al 2 novembre per permettere a Lauren Hill di vivere ancora una volta, probabilmente per l’ultima volta, le emozioni che la pallacanestro le ha dato e le continua a dare.
Un lascito dal valore incommensurabile, che insegni qualcosa a ognuno di noi, che dia alle nostre esistenze un nuovo significato, che ci spinga a meritare ogni minuto della nostra vita, a imparare da Lauren, dal suo coraggio e dalla sua voglia di vivere.